Accabadora
– Michela Murgia
⭐️⭐️⭐️⭐️ 4,5/5
📅 2009
| 📚 166 pagine | 📖 Einaudi
Audiolibro ascoltato su
Bookbeat 04:37:00, letto dall’autrice
🏆 Premio Campiello
2010
Accabadora è un romanzo di formazione che racconta la storia di Maria Listru, affidata da bambina a Bonaria Urrai, donna che di giorno fa la sarta ma di notte custodisce i segreti più estremi del villaggio di Soreni, luogo immaginario in Sardegna. Il rapporto tra Maria e Bonaria cresce tra le malelingue di paese, ma con Bonaria Maria ritrova sicurezza e protezione.
Maria, invece, abituata a concepirsi soprattutto come un’insignificanza, ci aveva messo più tempo a rendersi conto di costituire un argomento.
Anche se tutti qui ti capiscono in sardo, l’italiano bisogna saperlo, perché nella vita non si sa mai. La Sardegna è pur sempre in Italia.
[…]
Non è vero che è in Italia, siamo staccati! L’ho visto nella cartina. […]
Quindi vivi staccata da tua madre, ma sei sempre sua figlia. È così? Non vivete insieme, ma siete sempre madre e figlia. […]
Arraffiei era andato sulla neve del Piave con scarpe leggere che non servivano, e tu invece devi essere pronta. Italia o non Italia, tu dalle guerre devi tornare, figlia mia.
Il romanzo introduce anche il concetto di “Fillus de anima”
Fillus de anima. È così che li chiamano i bambini generati due volte, dalla povertà di una donna e dalla sterilità di un’altra. Di quel secondo parto era figlia Maria Listru, frutto tardivo dell’anima di Bonaria Urrai.
Per chi legge il libro per la prima volta in questi anni, l’elemento di mistero, dovuto al lavoro notturno di Bonaria che Maria ancora non conosce, è ormai scomparso perché, che voi siate sardi o no, tutti ormai sappiamo cosa facesse la figura dell’accabadora.
Per capire meglio il contesto del romanzo, vale la pena ricordare due figure tipiche della tradizione sarda: l’accabadora e l’attitadora.
👵 Chi erano le accabadore?
Il termine accabadora deriva dal sardo s’acabadora, cioè “colei che finisce” (acabar in spagnolo significa “terminare”).
Nella tradizione popolare sarda, le accabadore erano donne anziane che avevano il compito di porre fine, in modo pietoso, alle sofferenze dei malati ormai senza speranza. Si trattava quindi di una sorta di “eutanasia arcaica”, non codificata da leggi ma regolata da un codice morale e comunitario.
🔹 Come agivano?
Entravano di notte nelle case dei morenti, spesso chiamate dalle famiglie stesse.
Potevano usare mezzi semplici e simbolici (un cuscino, un colpo secco, o strumenti rituali come ‘su mazzolu’, un piccolo martello di legno).
Non erano viste come assassine, ma come figure di misericordia, che restituivano dignità e pace al morente.
🔹 Ruolo sociale
Le accabadore erano rispettate e temute allo stesso tempo.
Appartenevano a un mondo rurale in cui vita e morte erano concepite come parte del ciclo naturale, e in cui la comunità condivideva anche l’atto finale dell’esistenza.
La loro azione si colloca tra rito, tradizione e tabù: un gesto silenzioso che segnava il confine tra la sopravvivenza e la pietà.
🔹 Letteratura e memoria
Nonostante le testimonianze orali, non esistono prove certe e documenti storici univoci: per alcuni le accabadore furono realtà concreta, per altri un mito popolare.
Michela Murgia, con Accabadora, ha trasformato questa figura in simbolo letterario di un’etica antica, che mette a confronto la durezza della tradizione e le domande universali sulla vita e sulla morte.
Ma parlare di mera eutanasia è riduttivo, non bastava desiderare la morte di qualcuno, le Accabadore non erano assassine.
Bonaria, infatti, rifiuta di uccidere un uomo che non è in fin di vita ma solo disperato per l’invalidità dovuta alla perdita di una gamba. Emergono dunque delle regole morali.
Non dire mai: di quest'acqua non ne bevo. Potresti ritrovarti nella tinozza senza manco sapere come ci sei entrata.
Colpiscono anche i riti funebri, così diversi da come si svolgono oggi, soprattutto per la figura dell’attitadora.
Le
attittadore
erano figure tipiche della tradizione sarda legate al rito
funebre.
Il
termine deriva da attitu,
che significa “lamento funebre”.
👵 Chi erano?
Donne, spesso anziane, chiamate a piangere e cantilenare accanto al defunto. Si sedevano in cerchio insieme ad altre, di solito a casa del morto per intonare un pianto ritmato e cantato, quasi una nenia, in cui ricordavano le qualità della persona scomparsa e il dolore per la sua perdita. Non era solo un lamento, ma una sorta di “elogio funebre in canto”, che serviva anche a guidare la comunità nell’elaborazione del lutto.
🌿 Funzione sociale
Le attittadore avevano un ruolo riconosciuto e rispettato: erano le custodi del dolore collettivo. Il loro pianto non era visto come finzione, ma come voce della comunità: piangevano per chi non riusciva a esprimere il proprio dolore.
📚 Curiosità
Pratiche simili di “pianto rituale” esistevano in molte culture mediterranee e non solo (le prefiche nell’antica Roma, le lamentatrici in Grecia e in Sud Italia).
Oggi la figura delle attittadore è quasi scomparsa, ma rimane nella memoria popolare e nella letteratura.
Il romanzo però non è solo dolore, è anche intriso di riti e tradizioni, come la preparazione dei dolci e del pane tipici sardi in vista del matrimonio della sorella di Maria.
Molti lettori hanno accostato Accabadora a L’Arminuta di Donatella Di Pietrantonio, e non a torto: in entrambi i romanzi c’è una bambina che cresce lontana dalla madre biologica, costretta a ricostruire un senso di identità dentro un contesto che non le appartiene del tutto. Maria in Sardegna e l’Arminuta in Abruzzo si muovono in mondi rurali dove il peso delle tradizioni, le malelingue e la durezza della vita contadina determinano il destino di chi nasce donna.
Eppure, se in Di Pietrantonio prevale un registro realistico e diretto, capace di restituire la ferita dello sradicamento negli anni ’70, Murgia sceglie un tono più simbolico e mitico, intrecciando la quotidianità con la dimensione sacra della morte. In Accabadora la domanda sul legame madre-figlia si allarga fino a toccare il confine tra vita e morte, legge e non-legge, pietà e giustizia. L’Arminuta, invece, resta più ancorato al dolore concreto di non sentirsi mai a casa, scavando con lucidità psicologica nella fragilità dei legami familiari.
In entrambi i casi, però, ciò che rimane è lo sguardo femminile sul crescere in un mondo che sembra sempre chiedere alle donne di rinunciare a qualcosa di sé: una madre, una figlia, un pezzo d’identità.
Se allarghiamo lo sguardo oltre L’Arminuta, altri romanzi aiutano a cogliere il respiro universale di Accabadora.
Elena Ferrante, con La figlia oscura, mette a nudo l’ambivalenza della maternità: il desiderio e il rifiuto, l’amore e il peso, in una tensione che ricorda la complessità dei legami tra Maria, Bonaria e la madre biologica. Elsa Morante, con La storia, ci porta in un contesto diverso, la Roma della Seconda guerra mondiale, ma anche lì la maternità diventa sopravvivenza, forza e ferita insieme: un tema che risuona con l’idea di figli generati due volte, come i fillus de anima. Viola Ardone, nel Treno dei bambini, racconta invece lo sradicamento nel dopoguerra, quando i piccoli del Sud venivano mandati a vivere con famiglie del Nord: esperienze di perdita e identità sospesa che dialogano da vicino con l’infanzia di Maria.
In tutti questi romanzi — da Murgia a Ferrante, da Morante ad Ardone — ritroviamo la stessa domanda di fondo: cosa significa davvero essere madre, figlia, appartenere a qualcuno o a un luogo? Le risposte sono diverse, ma unite da un filo rosso di dolore, forza e ricerca di sé.
Raccogliendo l’eredità di Grazia Deledda nel raccontare una Sardegna intima e brulla, fatta di donne e dei loro complicati rapporti familiari, Michela Murgia porta queste storie fino ai problemi del XXI secolo. Grazie a entrambe per aver dato voce e respiro universale alla Sardegna. Grazie a tutte le autrici italiane che danno voce alle donne passate, presenti e future.
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