Min Jin Lee
Pachinko, la moglie coreana
2017
577 pagine
Piemme
4/5 ⭐⭐⭐⭐☆
✍️
L’autrice
Min Jin Lee è nata a Seul nel 1968
ed è emigrata da bambina negli Stati Uniti con la famiglia. Laureata
a Yale, ha iniziato a lavorare come avvocata, ma ha abbandonato
presto questa carriera per dedicarsi completamente alla scrittura. Il
suo esordio è stato Free Food for Millionaires (2007,
tradotto in italiano come Amori e pregiudizio), un romanzo ambientato
a New York che esplora l’incontro-scontro tra cultura coreana e
società americana.
Il vero successo internazionale, però, è arrivato con Pachinko (2017), che l’ha consacrata come una delle voci più importanti della letteratura contemporanea. Il romanzo è stato finalista al National Book Award e inserito in molte classifiche tra i migliori libri dell’anno, diventando un fenomeno globale e ispirando anche una serie televisiva di Apple TV+.
📖 La trama
Pachinko è una lunga
storia che copre quasi ottant’anni, dal 1910 al 1989, spostandosi
dalla Corea al Giappone. È sempre un rischio scrivere romanzi che
abbracciano un arco temporale così ampio, perché è difficile
tenere viva l’attenzione del lettore tra tanti personaggi e fasi di
vita diverse. Nel mio caso, l’interesse è andato un po’ calando
verso la fine, ed è anche per questo che non ho dato il voto
massimo.
Il romanzo attraversa più generazioni e ambienti, seguendo le vicende di una famiglia coreana che, tra povertà, migrazioni forzate e discriminazioni, cerca di resistere e trovare un posto nel mondo. Al centro c’è Sunja, una giovane donna di umili origini la cui vita cambia drasticamente dopo l’incontro con il ricco Koh Hansu. Costretta a trasferirsi in Giappone, Sunja si troverà a crescere i figli in una società che considera sempre gli stranieri come “diversi”, nonostante i sacrifici e gli sforzi di integrazione.
✨ Lo sapevi?
Min Jin Lee ha impiegato
quasi trent’anni per scrivere Pachinko.
Ha iniziato a raccogliere testimonianze già negli anni ’80,
intervistando famiglie coreane che vivevano in Giappone. Nel corso
del tempo ha riscritto più volte il romanzo fino ad arrivare alla
versione definitiva, che è poi diventata un successo internazionale.
Anche se la protagonista è una sola, sono tanti i personaggi che arricchiscono la storia: dalla madre vedova e lavoratrice, al marito Isak e alla sua famiglia composta da fratello tradizionalista, Yoseb e sua moglie Kyunghee; Hansu, un ex ingombrante, e i figli, Noa e Mozasu.
Il titolo richiama il popolare gioco d’azzardo giapponese, metafora della precarietà dell’esistenza: come nel pachinko, la vita sembra affidata al caso, a circostanze incontrollabili che decidono successi o sconfitte. Eppure, dentro questo flusso apparentemente casuale, i personaggi cercano di dare un senso alle proprie scelte, di ritagliarsi uno spazio di libertà, di amore, di identità.
💡Lo sapevi?
L’autrice ha detto che voleva scrivere una storia in cui i coreani fossero protagonisti e non “comparse” della narrativa occidentale: Pachinko nasce proprio dall’urgenza di dare voce a chi spesso resta invisibile.
Il romanzo si apre all’inizio del Novecento, in un’epoca in cui la Corea è sotto il dominio coloniale giapponese (1910–1945). Questo periodo segna una frattura profonda: la lingua, la cultura e le tradizioni coreane vengono sistematicamente represse, mentre molti coreani sono costretti a emigrare in Giappone o nelle colonie alla ricerca di lavoro e sopravvivenza.
Il racconto si estende attraverso momenti chiave della storia asiatica e mondiale:
L’espansione giapponese in Manciuria (1931): segna l’inizio di una fase di militarizzazione e di occupazione che trascina tutta la regione in un clima di violenza e instabilità.
La Seconda guerra mondiale: incide profondamente sul destino delle famiglie coreane in Giappone, già emarginate e viste con sospetto. La scarsità di risorse, la povertà e la discriminazione si aggravano in quegli anni.
Hiroshima e Nagasaki (1945): la tragedia delle bombe atomiche tocca direttamente o indirettamente i personaggi, mostrando come nessuno sia immune agli eventi della grande Storia.
Il dopoguerra e l’occupazione americana del Giappone: aprono nuove possibilità ma anche nuove forme di marginalizzazione, lasciando i coreani in una posizione ambigua, né pienamente accettati né completamente esclusi.
I giapponesi erano sempre più coinvolti nella
guerra in Asia e girava voce che presto si sarebbero alleati con la
Germania nella guerra in corso in Europa.
Tutto ciò era di
qualche rilevanza per Joseb? Aveva sempre annuito quando il suo capo
giapponese parlava di guerra, perchè era obbligato a farlo. Ciò
nonostante, tutti i coreani che conosceva pensavano che
l'espansionismo giapponese in Asia fosse irragionevole. La Cina non
era la Corea e nemmeno taiwan; la Cina poteva perdere un milione di
persone e andare avanti comunque. Anche se alcune zone fossero
cadute, restava pur sempre una nazione smisurata; avrebbe resistito
solo grazie ai numeri e alla determinazione. I coreani volevano che
il Giappone vincesse? Col cavolo! Ma che ne sarebbe stato di loro, se
avessero vinto i nemici del Giappone? L'avrebbero scampata? A quanto
pareva, no. E allora meglio salvarsi il culo: ecco cosa pensavano i
coreani. Salva la tua famiglia. Riempiti la pancia. Fai attenzione a
non fidarti di chi è al vertice. [...] per ogni patriota che
combatteva per una Corea libera, o per ogni disgraziato coreano
traditore che combatteva in nome del Giappone, c'erano diecimila
compatrioti lì e altrove che cercavano solo di sfamarsi. Alla fine,
era lo stomaco il vero imperatore.
Attraverso queste tappe, Min Jin Lee mostra con chiarezza come gli avvenimenti storici influenzino non solo le sorti collettive, ma anche le vite quotidiane: chi può studiare, chi può lavorare, chi può sposare chi. La Storia diventa un personaggio silenzioso ma onnipresente, che accompagna tutte le generazioni raccontate nel romanzo.
Il libro si concentra soprattutto sulle persone: anche i personaggi secondari hanno il loro spazio e, nell’arco di un singolo capitolo, l’autrice riesce a raccontarne la vita con profondità e umanità. La scrittura cattura subito l’attenzione, ma invece di mantenere un ritmo incalzante fino alla fine, il romanzo rallenta progressivamente. Probabilmente perché l’intreccio diventa molto ampio e si apre a nuove generazioni e scenari, che a volte rischiano di appesantire la narrazione. Personalmente, avrei trovato più efficace fermarsi a un punto preciso della saga, senza aggiungere ulteriori sviluppi, o magari dividere la storia in due volumi distinti.
Alcuni elementi mi sono sembrati meno convincenti. Il pachinko, ad esempio, inizialmente presentato come un luogo di degrado e dipendenza, finisce per apparire soprattutto come un semplice sbocco lavorativo per i coreani. Più interessante invece il modo in cui Min Jin Lee utilizza questo spazio per mostrare la varietà di percorsi possibili: tra chi riesce a costruire un’esistenza dignitosa e chi resta intrappolato nella marginalità.
Anche la figura di Koh Hansu merita una nota a parte: legato alla yakuza, avrebbe potuto essere tratteggiato come un criminale stereotipato e privo di scrupoli. In realtà, la sua caratterizzazione è molto più sfumata: nonostante le ombre del suo passato, mostra attenzione, cura e perfino protezione nei confronti della famiglia di Sunja. Questo rende il romanzo più complesso, evitando facili semplificazioni e restituendo personaggi che oscillano costantemente tra luci e ombre.
'' Go-saeng'' scandì ad alta voce Yangjin. ''Il destino di una donna è soffrire.''. ''Si, go-saeng'' annuì Kyunghee, ripetendo la parola che significava ''sofferenza''. Sunja lo sentiva dire da una vita dalle altre donne che che il destino di tutte era soffrire : soffrire da ragazze, soffrire da mogli , soffrire da madri , morire soffrendo . Go-saeng,quella parola le dava la nausea. Ma che altro c'era oltre la sofferenza ?
Nonostante ci siano così tanti personaggi maschili, il romanzo non manca di dare voce alle donne: dalle figure forti e tenaci come Sunja e Yangjin, a quelle più fragili e complesse come Kyunghee, Etsuko o Hana. Le loro vicende mettono in luce temi universali come maternità, autonomia, discriminazione di genere e identità culturale.
“Pachinko” racconta senza abbellimenti la durezza della vita,
il peso delle radici e la difficoltà di sentirsi accettati in una
società che rifiuta l’integrazione. Se alcune parti mi sono
sembrate meno riuscite o volutamente lasciate in sospeso, altre mi
hanno colpito con la forza delle ingiustizie raccontate o con la
delicatezza di momenti intimi e commoventi.
È un romanzo che
non semplifica e non concede tregua, ma che restituisce con potenza
la complessità dell’esistenza, lasciando nel lettore il senso di
aver attraversato un’intera vita insieme ai suoi protagonisti.
Avete letto Pachinko? E magari visto anche la serie? Mi
piacerebbe sapere quali differenze avete notato tra le due versioni e
cosa vi ha colpito di più. Scrivetemelo nei commenti, sono curiosa
di confrontarmi con voi.
Sempre e per sempre buone letture.
A
presto,
I.
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